08/08/2024
L’immagine più bella di queste Olimpiadi è questa. Questa. Questa di Novak Djokovic che piange abbraccia e stringe la figlia.
È una immagine di una potenza assoluta.
Ho visto la partita disputata tra lo spagnolo Carlos Alcaraz e Djokovic. E vi prego inginocchiatevi dinanzi a questo gigante del tennis. Dinanzi a questa leggenda.
“Per me è importante - aveva detto a Fabio Fazio - visualizzare che sei il vincitore della partita”.
Perché Novak lo sa che la testa può tutto.
Che la testa gioca tutto. Che le cose bisogna visualizzarle e poi andarsele a prendere. Un match lunghissimo, una battaglia durata quasi tre ore.
Con passaggi che a ogni momento lasciavano con il fiato sospeso. I muscoli del campione serbo tremavano. Pulsavano. Erano in un pieno di fermento, tensione, vigore, vitalità, concentrazione.
Novak non tiene solo la racchetta in mano. Novak con la racchetta disegna il suo destino.
Dipinge linee perfette, colpi mirati come fossero missili. Dritti rovesci, rovesci dritti, tonfi secchi, cupi, potenti, incisivi, profondi.
Una capacità e una concentrazione che gliele vedi negli occhi. Nel volto. Nelle gambe. Nelle mani. Mentre l’altro era affaticato lui non si scomponeva per nulla. Palleggiava quella pallina prima di ti**re diecimila volte. Testa ferma. Occhi fissi. L’avversario lo porta allo sfinimento.
E poi quelle falcate, quelle falcate per parare i colpi. Si allunga per tutto il campo che pare non faccia nemmeno sforzo. Ma lui lo sa quanta fatica si fa. Nato a Belgrado, all’età di 12 anni a causa della guerra civile dovette fuggire dal suo Paese. Quando era piccolino i suoi avevano una pizzeria. Davanti c’erano dei campi da tennis. E fu lì davanti che cominciò a giocare. Un’insegnante lo notò e convinse i genitori a investire su questo ragazzino. “Farà tanta strada”, disse.
Sì, e di strada ne ha fatta. Nonostante tutti i problemi affrontati, è diventano uno dei migliori tennisti di tutti i tempi.
Al colpo decisivo che ha sancito la sua vittoria a Parigi, si è inginocchiato sul terreno rosso, si è portato le mani al viso e ha iniziato a piangere. Il pubblico era in delirio: Djokovic è già storia.
Si è fatto il segno della croce. Tremava per la commozione per la gioia per la fatica per il sudore. Dietro a quei cinque minuti di pianto c’era la scarica potente di quattro anni di inferno. Poi, fregandosene di tutto, ha preso ed è salito sopra le tribune. È andato lì dove era la sua famiglia.
Piangeva come un bambino, mentre abbracciava sua figlia. E questa è l’immagine più bella.
Di: Serenella Bettin